Sono passate ormai dieci ore dall’inizio del mio turno. È un sabato sera di fine stagione e la mia sopportabilità sta cedendo il passo alla speranza che gli ultimi dieci giorni prima delle ferie scorrano veloci.
Il chiacchiericcio di sottofondo mi ipnotizza, non riesco neanche più a capire se sia un sogno o realtà. Corpi ubriachi e sudati di avventori dell’ultima ora, si strusciano uno sull’altro, si spintonano, per arrivare primi al bancone, come fosse lo striscione di fine gara di una maratona.
Entra lui: alto poco più di me, con i capelli laccati, la pelle giallastra rovinata da anni di lampade e la camicia a fiori aperta sul petto. Si avvicina al banco; io e la collega bionda ci guardiamo “è ubriaco, meglio non dargli più nulla da bere”, dicono i nostri occhi. Tiro su la testa nella sua direzione e fissando le iridi marroni circondate da un forte rossore aspetto che ordini.
- Un Rum e Coca.
Non ha sbagliato a formulare la richiesta, non vuole un rum e cola, vuole uno shot di Zacapa e un piattino dove stendere lungo una striscia bianca la sua salvezza. Mentre mi chiede di avverare questo suo desiderio, le sue pupille non guardano le mie, ma sono concentrate sulla scollatura. Il suo sguardo mi sporca.
Gli preparo senza fiatare un bicchiere di acqua frizzante; magari tutte quelle bollicine lo sveglieranno dal torpore dell’alcol. Batte un pugno sul bancone:
- Voglio il mio rum e coca, puttana.
Sorrido. La sua rabbia è la consapevolezza di essere impotente di fronte a una mia decisione. Tiro verso di me l’acqua che gli avevo servito poco prima. Non ha diritto neanche a quella, ora. Avvicina una mano al bicchiere, poi però va oltre, la appoggia al mio seno. Sento il fetore del suo respiro, che si è fatto sempre più pesante nell’eccitazione malata di un momento.
Avvicino la mia mano alla sua, la prendo, la torco lentamente, perché altrettanto lenta è la sua realizzazione. La appoggio sul bancone e da dietro la mia traversa sfilo un coltello da carne: glielo pianto sul palmo. Non può muoversi. Tre infiniti secondi dopo sento le sue urla.
Mi risveglio improvvisamente da quel sogno a occhi aperti. Il mio capo lo sta buttando fuori dal locale.
Peccato non averlo fatto davvero. Tornerà.
Guardo il bancone; mi sarebbe dispiaciuto rovinare quel bel marmo per lui. Almeno non dovrò pulire.