Non posso negare di aver goduto notevolmente. Me ne devo stare zitto, anche se forse i giurati capirebbero. Dei tanti abomini che l’essere umano può compiere, questo è il più abietto.
L’inerzia posso capirla, quando si tratta di fare cose complicate, svegliarsi al mattino e andare in fabbrica, ignorare un libro che da troppo tempo siede sul comodino accanto al letto chiedendo di compiere il suo destino d’essere letto. Questo no, questo non potevo proprio accettarlo.
Marco, dopo tanti anni di amicizia, mi aveva convinto a prendere un appartamento.
Quando accadde la prima volta mi guardai bene dal rimproverarlo, la dimenticanza di una volta per la fretta posso tollerarla. La seconda volta glielo feci notare e, con un sorriso a metà, a voce fioca mi chiese scusa, forse per risparmiarla per tutte le volte che sarebbe accaduto. Per un mio atteggiamento zen verso la vita, o per l’enorme fiducia che ripongo nel genere umano, lasciai stare.
I giorni passarono e così come era apparso, quel principio di rabbia svanì.
Il dentifricio era finito. Ne comprai due tubetti, uno a testa. Avrebbe potuto fare del suo quello che avesse voluto.
Poi Marco partì. Una settimana di solitudine. La mattina in cui tornò presi il mio spazzolino, sempre asciutto, il tubo del dentifricio era schiacciato dalla parte bassa; lavai i denti. Appena arrivato andò in bagno a rinfrescarsi dopo il volo, il viaggio in treno, l’autobus e la corsa sotto la pioggia. Entrai dopo di lui.
Sul lato destro del lavandino il bicchiere che solitamente contiene i miei attrezzi per l’igiene mentale (lapsus: dentale, intendevo) aveva acqua dentro. Lo spazzolino bagnato, il mio tubetto del dentifricio chiuso, tirai un sospiro di sollievo. Solo ora che Marco non lasciava più aperto il mio dentifricio, mi accorgevo che non c’era mai stato un secondo spazzolino dentro il bicchiere sul lato sinistro.
Spero che la giuria possa capire che riempirgli la bocca e le narici di dentifricio fosse l’unico modo per fargli capire quanto in fretta si seccasse, spero che siano clementi per il luogo in cui ho sacrificato il mio unico spazzolino. Si chiama legge del contrappasso, e non ne ho mai immaginata una più azzeccata.