Avevamo finito di mangiare da un pezzo, ora era il momento delle storie dell’orrore. Toccava a me e non sapevo cosa raccontare. Poi, sentii un pizzicore dietro l’orecchio sinistro, si faceva sempre più forte, il lobo era caldo, bruciava; la bocca iniziò a muoversi, il petto a vibrare.
«Sette anni di botte. Un livido al giorno; ogni serratura aperta, la paura che fosse l’ultimo.»
Mi sentivo un burattino nelle mani di un cantastorie invisibile ai miei commensali.
Il bruciore all’orecchio aumentò e la voce tornò a uscire, come vomito acido di un ubriaco.
«Sette anni di botte continue. Avevo solo una missione: non farmi uccidere. Dovevo tacere alle amicizie, che sennò avrebbero denunciato per me, trovare scuse credibili e sperare che mi credessero. Vivere nell’ombra.»
Sentivo un forte dolore alle costole, ma la voce proseguì.
«Non dovevo insospettire lui: mio marito, che, come tanti altri, era un violento. Almeno così mi dicevano per consolarmi della scelta. E ancora: “Lui non è così”. Queste parole mi perseguitavano ogni volta che mi piantava una scenata di gelosia, ogni volta che mi dava della puttana, ogni volta che mi chiudeva a chiave in camera, ogni volta che “non mi picchiava perché mi amava”.
Ogni volta i suoi amici, i miei familiari dicevano “Ma lui non è così, sarà il periodo.”, e intanto diventava sempre più violento e quel periodo non finiva mai.
Sette anni di foto a lividi e sangue, sette anni di registrazioni audio e video, sette anni di reportage sul mio diario, in cartelle e cassetti segreti con il terrore che trovasse tutto, e tutto finisse. Sette anni di abusi: verbali, fisici, sessuali, perché tanto “sono tuo marito”.
Oggi quei sette anni sono finiti, oggi sei stato condannato. Sette anni di morte per riprendermi la vita.»
Solo allora guardai i commensali, tutti vestiti uguali, non era una cena di gala. Ero chiuso, imprigionato.
Sono stato uno stupido.
Sette anni della mia libertà, per una vita all’inferno.