Dicono

Lascio scorrere sulle mie dita coltelli, piatti e pagine. Mi tagliano. Ho il palmo incrostato di sangue, le nocche bruciano di limone, il dorso è tutto un crampo. La penna scivola sul quaderno, le patate scorrono lungo il tagliere, il filetto tenta di scappare alla sua sorte. Poi mi dimentico di cosa faccio: anelli di cipolla si trasformano in tante O mentre di ciò che scrivo rimane solo la sazietà. Mi alzo da tavola.
Sistemo. I quaderni nel lavandino, le penne nel cestino, accanto al computer solo un piatto di pasta. Cerco l’ispirazione. Le letterine tante volte usate nel brodo ora son secche. Le sposto, compongo. Poi una voce dietro di me mi ricorda che devo andare.
“Corri! Sei in ritardo.”
Metto su la traversa, prendo il cavatappi, abbandono la mia opera là. Forse più tardi mangerò anche io, come i clienti. Mi nutrirò di un cibo diverso. Digerirò parole e frasi, scarterò gli avverbi e, con questi, D eufoniche e similitudini.
Ma adesso devo guadagnarmi il pane per la giornata. Non si può vivere solo di racconti.
Dicono.

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