Una guerra sul palco

Ero rimasta sola. Una forte luce m’impediva la vista sulla grande sala di fronte.
Gocce di sudore iniziarono a colare, marciavano spedite; erano partite dalla fronte e ora attraversavano i monti delle sopracciglia. Le ciglia erano foreste in cui alcune di loro si perdevano: immaginavo l’eco prodotto dalle loro urla alle compagne

  • Siamo incastrate. Aiutateci.

Le altre, però, come si conviene ai battaglioni che hanno ricevuto un buon addestramento, proseguivano lungo il percorso tracciato.
Le sopravvissute scendevano lungo le gote, divise in tre reggimenti: uno a destra, uno a sinistra e uno centrale; quest’ultimo passava per il naso. Le soldatesse che attraversavano questo tratto erano le prime a spiccare il volo, una volta giunte sull’orlo del precipizio.
Le compagne marciavano ai lati: si sarebbero lanciate dal mento. Essendo io una di quelle donne senza barba, non avrei perso altri soldati tra boschi di pelo.

La sala di fronte era buia, forse era vuota; non avrei potuto saperlo finché la luce che mi perforava le pupille non si fosse spenta.

Più in basso, un’altra unità militare aveva sferrato l’attacco. Il solco prodotto tra il braccio e il torace doveva essere luogo di sepoltura, visto l’olezzo che ne derivava. Non sarei riuscita a pronunciare parola, non avrei portato a compimento quel monologo auto-redatto, ripetuto e ripassato per ore davanti allo specchio negli ultimi tre mesi.

Poi la luce si affievolì, o i miei occhi si abituarono. Le pupille si dilatarono, rilassate dal termine di quella tortura. Vidi in prima fila la mia compagna. Calma, la sua bocca, priva di ansia, mimava le prime parole del testo. Le mie labbra iniziarono a seguire le sue, come stessimo giocando al gioco degli specchi. La voce, ancora un po’ rauca e incerta, cominciò a scorrere come il sudore sulla mia fronte: iniziò così la controffensiva.

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