Tanti fili di lana colorati scendono dal soffitto di cielo. Forse sono cavi o corde. Non saprei distinguerli bene. La mia vista è offuscata. Provo ad aggrapparmici. Scivolano sulla mia mano. Allora, ne attorciglio due ai polsi: uno verde sul destro, uno arancione sul sinistro. Mi tirano su, sempre più in alto. Le vertigini, provate nei primi dieci metri da terra, svaniscono. Arrivo così distante da terra che non riesco più a distinguere nulla sotto di me. C’è altro cielo. Forse è un mare così piatto e limpido che rispecchia solo ciò che è attorno a me, ma non vedo i colori e non vedo il mio corpo appeso. Mi lascio andare. Cado. Precipito. La mia pelle non viene consumata dall’aria che mi passa accanto, è invece una discesa morbida, come se la gravità si fosse estinta. Arrivo a terra, arrivo su quel mare che prima mi pareva tanto lontano. Sprofondo là dentro, e mi accorgo che so ancora respirare. Allora, forse, quello non è mare. La paura precedente mi aveva fatto trattenere il respiro. Ero in apnea. Ora, invece tutto è sottosopra e il cielo di prima è ora il mio mare, e l’acqua che tanti metri sotto di me mi aveva accolta, è adesso fatta di nuvole e vuoto. Respiro a pieni polmoni. Respiro con il diaframma. Sono viva. La paura dell’ignoto è sparita. Mi sveglio. Intorno a me pioggia e profumo di onde che s’infrangono sulla roccia, sul bagnasciuga. Chiudo gli occhi un’altra volta. Ora nuoto. Nuoto nel mare di emozioni, nell’oceano di ricordi, affogo per un attimo nel dubbio. È realtà o è sogno? È sogno o realtà? Poi torno a galla e con un asciugamano mi avvolgi. Tu, unica cosa reale della mia vita. Unico appiglio. Unica vita.